Teatro

Arafat e Sharon, coppia comica a teatro

Arafat e Sharon, coppia comica a teatro

I matrimoni a volte sono strani. Pensate un po’: una compagnia di rinomato curriculum sperimentale, Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, decide di mettere in scena per la prima volta nella sua storia un testo di autore vivente, Antonio Tarantino, che potresti definire un Céline uscito dalle acque della tragedia classica. Che conseguenze potrà avere questo coniugio? La domanda dev’essere ronzata dentro parecchie teste l’altra sera al Gobetti, dove, per il Festival delle Colline, sarebbe andata in scena la commedia La pace. Alla domanda seguiva una sotto-domanda stimolata dal segno forte di compagnia e autore: chi dei due ci guadagna? Chi ci rimette? Forse ci ha rimesso Tarantino. Sebbene un po’ prolissa, la sua è una bella commedia che porta in scena nientemeno che Sharon e Arafat: non i capi in carica di due popoli in rotta di collisione, ma due ex. Nelle mani di Tarantino, i due sembrano Stefano e Trinculo evasi dalla Tempesta di Shakespeare: una coppia comica litigiosa, petulante, puzzolente, assetata e fuggiasca verso una meta che confina con il deserto tunisino. Durante il viaggio è costretta a subire le angherie dei poliziotti, degli impiegati ferroviari, dei conducenti di autobus, di una prostituta proprietaria di oasi che li induce ad accoppiarsi con un orso incline alle emozioni erotiche. Il viaggio è disseminato di serpenti dal morso letale, ma ha una meta maliosa e insieme misteriosa: la pace. «Solo nel deserto voi due ritroverete la pace!», predice una strega di spaventosa bruttezza, impegnata dal destino a coltivare il male. La stessa cosa sostiene Che Guevara, che parla dal sottosuolo di Sfax, la città dei morti. Giungeranno finalmente alla pace? Ma a quale pace? La commedia è bizzarra, paradossale, densa di estri comici e linguistici, vibra di sottolineature buffonesche, è politica in maniera distruttiva, pessimistica, quasi disperata. I due ex la percorrono come due clown della malasorte con la memoria gonfia di devastazioni e di sopraffazioni: quelle stragi che promettono di continuare fino alla fine della specie. Tutto ciò viene inquadrato da Daniela Dal Cin in una cornice scenica geniale: una ragnatela di ferro che allude all’indissolubile legame tra i due, al fatto che, prigionieri della stessa logica, l’uno sia complementare all’altro. La Dal Cin ha poi disegnato spiritossimi costumi e maschere che deformano la coppia in senso caricaturale: Arafat ha la kefiah e un occhio sporgente come un cannocchiale; Sharon ha l’elmetto coloniale su cui è impresso il simbolo del dollaro accanto a una bandierina bianca che non è mai stata un segnale di resa. In tale contesto da rivista surrealista Maria Luisa Abate nelle parti della Strega e della Prostituta, Marco Isidori come Arafat e Paolo Oricco come Sharon affrontano il testo secondo lo «stile Marcido». Visti in sé, sono bravissimi. Ma, allargando la prospettiva, mostrano una pericolosa incrinatura. Quel recitare fatto di gridolini, d’impennate, di calate, di squittii; quelle parole che s’inseguono, s’accavallano e a volte si distendono in un flusso melodico indicano il modo meno adatto per comunicare un testo che tutti ascoltavano per la prima volta. Se poi alle parole così volatili e imprendibili si aggiungono una invariabile uniformità di tono e una sostanziale staticità dell’azione scenica, si ottiene quell’effetto che il pubblico di ogni latitudine teme come la peste: l’effetto noia.